Lunedì 5 agosto l'India si è svegliata con uno Stato in meno, il Jammu and Kashmir, and due territori dell'Unione in più: il Kashmir e il Ladakh. Con uno storico colpo di mano, Narendra Modi e il suo governo hanno posto fine a settanta anni di autonomia della regione al centro di una annosa e sanguinosa disputa con il Pakistan per integrarla definitivamente all'India. Non abolendo, come sommariamente è stato riportato, l'articolo 370 della Costituzione che garantiva speciali prerogative al J&K, ma usando proprio i poteri attribuiti dall'articolo 370 all'Assemblea del Kashmir per cambiare lo status della regione. Da qualche mese, difatti, a causa della litigiosità delle storiche famiglie politiche di Srinagar e dintorni, la regione era senza Assemblea e sotto il cosidetto 'president rule', il governo del Presidente: a cui, in questo caso, spettano tutti i poteri prerogativa dell'Assemblea, incluso quello di cambiare status alla regione. Con il nuovo assetto decade automaticamente quindi l'articolo 370 e decade anche un altro famigerato articolo: il 35A, che discriminava pesantemente donne e minoranze. Secondo l'articolo 35A le donne del Kashmir perdevano ogni diritto di proprietà sposando un non kashmiro, i cittadini indiani non residenti non potevano acquisire proprietà in J&K o possedere attività commerciali, i dalit erano pesantemente discriminati. La decisione, presa dopo aver inviato in Kashmir 35.000 truppe addizionali più copertura aerea per le suddette e aver imposto il coprifuoco e tagliato tutte le linee telefoniche, ha scatenato l'inferno sia in India che oltre confine. La cosiddetta 'questione del Kashmir' nasce all'indomani della divisione tra India e Pakistan, quando agli stati autonomi governati da un sovrano era stata data la scelta tra le due nazioni nascenti. Il maharaja Hari Singh, di religione hindu che governava uno stato a maggioranza musulmana, aveva deciso per l'annessione all'India temendo di essere invaso dal Pakistan che aveva già cominciato a infiltrare truppe ai confini. Il Pakistan invadeva il kashmir conquistandone una buona porzione. Ai tempi il Kashmir comprendeva una vasta porzione di territorio divisa oggi in varie regioni: da parte pakistana, l'attuale Kashmir, il Gilgit Baltisan e l'Aksai Chin. Da parte indiana, l'attuale J&K e il Ladakh. Al tempo, quando è stata decisa la cosiddetta Linea provvisoria di confine che ancora divide il Kashmir indiano da quello pakistano, l'Onu aveva emesso una risoluzione chiedendo che ai kashmiri fosse data la possibilità di decidere del loro destino. La risoluzione non è mai stata messa in atto perchè il Pakistan, dopo aver venduto alla Cina un pezzo di Kashmir e dopo aver creato il Gilgit-Baltisan, si riifutava di ritirarsi dai territori occupati. Nelle intenzioni di Islamabad, la regione contesa è soltanto quella appartenente, in base al diritto internazionale, all'India. E sul Kashmir il Pakistan, praticamente da sempre, basa gran parte della sua politica estera. Non solo: il Kashmir, e il nemico indiano alle porte, è la ragione di essere dell'esercito pakistano e del suo governare di fatto il paese. E la narrativa pakistana sul Kashmir, grazie all'incessante attività di relazioni pubbliche dell'esercito, è quella dominante. Così, si percepisce, erroneamente, la regione come un paradiso perduto di abitanti di religione musulmana. Errore: il Ladakh, che da anni chiedeva di essere separato dal J&K, è di religione prevalentemente buddista, e diventa oggi l'unico Territorio dell'Unione a maggioranza buddista. Jammu, parte del J&K, era di religione induista: era, prima che i cosiddetti kashmiri pandits subissero negli anni ottanta una atroce pulizia etnica da parte dei loro vicini di casa e fossero costretti a emigrare. Nelle intenzioni di Modi e dei suoi, integrare pienamente il Kashmir dentro l'India è l'ultima carta, e forse quella definitiva, per sconfiggere la militanza armata all'interno della regione. Disastrosi errori politici da parte indiana, e infiltrazioni di jihadi pakistani all'interno della regione, hanno difatti, sempre negli anni ottanta, trasformato Srinagar e dintorni in una fabbrica di jihadi: negli ultimi mesi, ai militanti di parte pakistana che combattevano per annettere al Pakistan il Kashmir indiano, si sono aggiunti jihadi legati all'Isis che dichiaravano di infiaschiarsene della lotta per il Kashmir e di essere interessati soltanto a stabilire un califfato islamico. Le lotte tra jihadi si erano aggiunte a quelle tra militanti ed esercito indiano, rendendo la regione un inferno. Certo, non appena le truppe speciali saranno ritirate e il coprifuoco abolito, ci saranno nuovi attacchi: al Kashmir, ma anche al resto dell'India. Imran Khan, per conto dell'esercito, sta già minacciando l'India in questo senso: ammettendo, una volta di più, che a controllare i jihadi è Islamabad. Il fatto è che il Pakistan è stato politicamente messo all'angolo: non c'è nulla che possa fare, tranne che affrontare la quinta guerra per la regione. Ma le casse sono vuote, non c'è supporto politico a livello internazionale, e Islamabad è sotto la spada di Damocle dell'FATF che vuole vedere azioni concrete contro i jihadi prima di togliere il Pakistan dalla sua grey list. Oltretutto, Islamabad teme rivolte anche in Gilgit Baltisan e nella sua porzione di Kashmir, regioni governate con pugno di ferro e legge marziale da anni. L'Onu, che non apre bocca per condannare il genocidio in atto in Balochistan o la condizione dei Pashtun, si è dichiarata 'preoccupata per la situazione dei diritti umani in Kashmir'. Ma la comunità internazionale ha già reagito politicamente e diplomaticamente all'azione di Modi: USA e Emirati Arabi, oltre agli stati vicini, hanno già dichiarato che si tratta di una 'questione interna' all'India. E che quindi l'India può fare ciò che vuole incluso smembrare, come d'altra parte ha già fatto il Pakistan anni fa, il Kashmir. A fare le spese di tutto sono, come al solito, i kashmiri. Che sperano soltanto di essere finalmente liberi, sia dall'esercito che dai jihadi. E che il Kashmir possa tornare a essere 'la Svizzera dell'India'. Francesca Marino