Dalai Lama
la Cina era in una delicata fase di transizione dall’ Impero della dinastia Qing alla Repubblica e il suo delegato abbandono’ sdegnato le trattative.
Situato nell’ estrema porzione nordorientale dell’ India, immediatamente a nord dell’ Assam e a est del “cuscinetto himalayano tra le due potenze formato da Nepal, Bhutan e Sikkim (anche’ esso parte dell’ India e sotto il tiro della propaganda cinese), abitato da circa un milione e mezzo di persone in maggioranza di etnia tibetana, l’ Arunachal e’ un punto chiave della regione e uno dei problemi che tuttora impediscono la normalizzazione delle relazione tra le due potenze asiatiche. Nel 1962, durante la sanguinosa guerra di frontiera tra i due Paesi, fu occupato per poche settimane dalle truppe cinesi, che si ritirarono una volta raggiunto un accordo di pace in base al quale Pechino ha mantenuto il controllo dell’ Aksai Chin, una catena montuosa che secondo New Delhi faceva parte del regno del Jammu e Kashmir sul quale ritiene di avere la sovranita’ - una rivendicazione contestata dal Pakistan e dalla stessa Cina. Commentatori indiani hanno piu’ volte messo in rilievo che lo Stato si trova all’ imboccatura del corridoio - o “chicken neck” - che collega gli Stati del Nordest dal resto dell’ India e che, nel caso non improbabile di una seconda guerra tra India e Cina, sarebbe uno dei principali obiettivi della People’s LIberation Army (PLA) cinese.
L’ anno scorso era stato il Karmapa - un lama secondo solo al Dalai Lama nella informale gerarchia del buddhismo tibetano - a visitare la regione. Il Karmapa e’ particolarmente inviso a Pechino perche’ nel 2000 fuggi’ dal Tibet sotto il controllo cinese e raggiunse Dharamsala, la cittadina del nord dell’ India dove risiede il Dalai Lama, il leader spirtuale del Tibet e premio Nobel per la pace che e’ considerato un pericoloso nemico da Pechino.
I media cinesi, tutti controllati dal Partito Comunista Cinese, hanno fatto a gara nell’ aprire il fuoco contro la visita che - ha scritto per esempio il Global Times - “provochera’ un danno irreparabile” alle relazioni tra i due Paesi. Le sfuriate di Pechino sono state finora ignorate dal governo di Narendra Modi, che sul problema del Tibet ha mantenuto l’ ambiguita’ strategica inaugurata oltre 50 anni fa dal primo capo di governo dell’ India indipendente, il pandit Jawaharlal Nehru. Innamorato idealisticamente della Cina comunista, Nehru ignoro’ le rivendicazioni cinesi su diverse porzioni del territorio indiano, lasciando allo stesso tempo mano libera ai militari nel perseguire sul terreno la cosidetta “forward policy”, vale a dire quella di affermare la sovranita’ indiana con frequenti incursioni delle pattuglie militari nelle zone controllate dalla Cina. La guerra, vinta dai cinesi in tempi relativamente brevi, porto’ alla fine di quella politica ma non dell’ ambiguita’. Nehru aveva di fatto aperto la strada alla conquista del Tibet da parte della PLA rinunciando, nel 1954, ai diritti extraterritoriali sul Tibet che l’ India aveva ereditato dall’ Impero Britannico. Secondo il commentatore indiano Brahma Chellaney - considerato un “falco” per quanto riguarda i rapporti con la Cina - ulteriori concessioni a Pechino vennero dai primi ministri Rajiv Gandhi (1984-1989) e Atal Bihari Vajpayee che nel 2003 “..si spinse piu’ in la’ di tutti i suoi predecessori e rinuncio’ formalmente alla carta tibetana della quale disponeva l’ India…accettando quella che Pechino chiama ingannevolmente Regione Autonoma del Tibet come ‘parte del territorio della Repubblica Popolare Cinese”.
Come lo stesso Modi, Vajpayee era considerato un primo ministro pro-business e forse era ansioso di compiacere i suoi sostenitori del mondo imprenditoriale che, come molti dei loro colleghi di tutto il mondo, si erano illusi di poter procedere con relativa facilita’ alla conquista del potenzialmente enorme mercato cinese. La base elettorale di Modi non e’ molto diversa quella che porto’ al potere Vajpayee alla fine degli anni novanta; entrambi provengono dalle fila dell’ organizzazione nazionalista hindu Rashtriya Swayamsevak Sangh (RSS), che in teoria dovrebbe essere popolata da “falchi” anticinesi. Finora Modi non e’ apparso particolarmente duro verso Pechino. L’ India, insieme al Giappone e alla Corea del Sud, fa parte di un teorico “fronte” volto a contenere le mire regionali della Cina, che sotto la guida di Xi Jinping, al potere dal 2012 e destinato con ogni probabilita’ a rimanerci almeno fino al 2022, si sono fatte sempre piu’ esplicite. Negli ultimi anni questo “fronte” e’ stato promosso dall’ ex-presidente americano Barack Obama, che ha lanciato la politica di “perno” (pivot) sul Pacifico, vale a dire lo spostamento dell’ asse centrale della politica americana dal Medio Oriente all’ Asia meridionale e orientale. Non e’ chiaro se e in che direzione cambiera’ la politica americana verso la Cina con l’ installazione dell’ Amministrazione di Donald Trump.
La tendenza sempre piu’ accentuata della Cina a conquistarsi il ruolo di indiscussa potenza regionale e quella degli USA a contrastarla indicano che il momento sarebbe favorevole per un cambiamento della politica indiana verso il Tibet che potrebbe spingersi fino a mettere in dubbio apertamente la pretesa cinese di sovranita’ sul territorio. Del resto, come abbiamo visto, la Cina non fa mistero di considerare non solo l’ Arunachal Pradesh, ma tutto il territorio che fu del Regno del Jammu e Kashmir come occupato indebitamente dall’ India. Pechino e’ fino ad oggi abilmente riuscita ad evitare che le venga applicato in diversi campi, da quello politico a quello commerciale, il concetto di reciprocita’ che e’ - o meglio, che dovrebbe essere - alla base delle relazioni diplomatiche internazionali. Un situazione che non e’ destinata a durare per l’ eternita’.