Si sono riuniti ancora una volta a migliaia, il 5 gennaio in Germania, a Colonia, e il 12 gennaio a Tank, nel Khyber-Pakthunhwa, per commemorare il primo anniversario della morte di Naqibullah Mehsud e per reiterare la loro determinazione a cercare giustizia in modo non violento per tutte le migliaia e migliaia di vittime delle cosiddette strategie antiterrorismo portate avanti dal governo pakistano. E, come è accaduto lungo tutto questo anno costellato di proteste nei confronti di Islamabad, la stampa pakistana non ha potuto o voluto raccontare l'accaduto: le notizie, come accade sempre più spesso in Pakistan, viaggiano quasi esclusivamente via social media e raccontano la storia di un paese sempre più lacerato da discriminazioni e violenza nei confronti di gran parte dei propri cittadini. La storia di Naqibullah è simile a quella di molti altri, che siano Pashtun, Baluchi o Sindhi. Naqibullah non era un eroe, e nemmeno un condottiero. Era soltanto un ragazzo con una bottega da mandare avanti e nella testa il sogno di diventare un fotomodello o, quantomeno, una star di Instagram. Le sue foto, ritoccate con filtri vari, postate sui social media, fanno tenerezza e anche un po' sorridere. Aveva anche vaghi interessi socio-umanitari, e questa, come è accaduto a molti altri comuni cittadini, potrebbe essere stata la causa della sua morte. Naqibullah è stato ucciso, difatti, in un presunto scontro a fuoco della polizia, che lo ha accusato di essere un basista dei Taliban. Niente di più lontano dalla realtà: dopo le prime proteste, sia della famiglia di Mehsud che di varie organizzazioni umanitarie, è stato provato che il ragazzo non aveva nulla a che fare con i Taliban e che lo 'scontro a fuoco' era stato fabbricato ad arte dalla polizia: in particolare da Anwar Rao, un fiero appartenente alla polizia locale noto per usare sistemi eufemisticamente definiti 'spicci' per liberarsi di persone in qualche modo scomode o non gradite. L'uccisione di Naqibullah è stata la scintilla che ha fatto divampare una protesta che covava sotto la cenere da molto, moltissimo tempo. Da quando, dopo l'11 settembre, la terra dei Pashtun e le regioni tribali, le Fata, sono diventate campo di battaglia tra le truppe pakistane e i Taliban ostili a Islamabad e al tempo stesso nascondiglio privilegiato per i cosiddetti 'buoni' Taliban. A farne le spese è stata la popolazione locale, presa tra due fuochi e diventata infine uno dei bersagli privilegiati di esercito e servizi segreti. Dichiara Manzoor Pashteen, leader riconosciuto del Pashtun Tahafuz Movement (Ptm) che guida la protesta: “Siamo stati sacrificati per anni sull'altare dei cosiddetti interessi strategici a causa dei gruppi terroristici autorizzati a operare sulla nostra terra. I nostri villaggi sono stati bombardati e la nostra gente è stata costretta ad abbandonare le proprie case in nome delle operazioni antiterrorismo. Migliaia di giovani sono stati illegalmente detenuti o sono semplicemente scomparsi. Molti dei nostri leader tribali, molti religiosi, leader politici e studenteschi sono stati semplicemente assassinati. Lo Stato ha totalmente fallito nel perseguire i colpevoli di questi crimini nelle Fata e nelle regioni confinanti abitate dai Pashtun, come il Khyber Pakhtunhwa e il Balochistan”. Molti abitanti delle aree interessati sono stati costretti ad emigrare altrove per scampare alla guerra e agli abusi di militari e terroristi, ma non è servito a molto. Anche in altre regioni del loro stesso paese, i Pashtun sono stati e sono bersaglio di continue discriminazioni e umiliazioni. Gli abitanti del Waziristan sono stati costretti a usare le cosiddette carte d'identità Watan, che discriminano il portatore in base all'appartenenza etnica e regionale. Sono carte d'identità speciali, che devono essere approvate e rilasciate dalle agenzie di intelligence e che rendono i portatori soggetti ad abusi e discriminazioni in nome della sicurezza nazionale. Il Ptm è nato letteralmente per strada, in modo spontaneo, durante la lunga marcia di protesta che ha visto migliaia di Pashtun scendere in strada per raggiungere Islamabad e far sentire la propria voce. Lungo questo anno, nonostante i dinieghi del governo, circa quattromila persone 'scomparse' sono tornate a casa: ma sono ancora a migliaia quelli di cui non si ha più notizia. Così come sono a migliaia coloro che sono stati vittima delle leggi draconiane che governano le aree tribali e quelle di confine, leggi che il Ptm chiede di abrogare o, almeno, di rivedere perchè violano i fondamentali diritti umani e civili della persona. Una per tutte, la cosiddetta 'legge della responsabilità collettiva', che viene sempre adoperata dalle forze dell'ordine: se qualcuno commette un crimine, a essere punito è l'intero villaggio o la tribù e la famiglia di appartenenza. Islamabad, dicono, sta giocando col fuoco: fa alcune concessioni ma continua a censurare giornali e televisioni per quanto riguarda le proteste pashtun, arresta i leader del Ptm, gli impedisce di lasciare le aree tribali e addirittura li mette sulla no-fly list. Quando non li accusa, come accade per i Balochi, di essere strumenti nelle mani delle solite 'potenze straniere'. Il numero di persone che sono scese in piazza nei giorni scorsi, però, racconta una storia diversa. Una storia da cui a quanto pare Islamabad non ha imparato assolutamente nulla: un simile movimento pacifico per i diritti umani e civili, lanciato dagli abitanti dell'allora Est Pakistan che erano vittima dello stesso tipo di abusi, è stato represso con la forza e ha portato infine alla nascita del Bangladesh nel 1971. Se governo ed esercito costringono i Pashtun ad abbandonare le proteste pacifiche e ad unirsi alla resistenza armata che opera, ad esempio, in Balochistan, le conseguenze per il Pakistan potrebbero essere devastanti e dividere per l'ennesima volta il paese a metà.Francesca Marino