Nel solo mese di Ramadan, cominciato lo scorso 13 aprile, ci sono stati 15 attacchi suicidi e 200 attentati. Più di cinquecento civili sono rimasti feriti, il bilancio dei morti si ferma ben sopra quota cento. Per la fine del sacro mese, celebrato in Afghanistan ancora una volta con un bagno di sangue, i Taliban e il governo di Kabul hanno dichiarato un cessate-il-fuoco di tre giorni. Seguendo, ancora una volta, un copione ormai tristemente noto che, purtroppo, anche l'Occidente e gli inviati a negoziare la spettrale 'pax Talibana' recitano ormai a memoria: tre giorni di tregua dopo un bagno di sangue, auspici perchè la suddetta tregua diventi permanente, un bagno di sangue ancora più efferato. Senza nemmeno più la scusa, da parte dei taliban, della jihad, la guerra contro gli invasori infedeli. A morire, difatti, sono ormai quasi esclusivamente civili, in gran parte donne e bambini, di nazionalità afghana. E non valgono nemmeno più i dotti distinguo tra Sciiti e Sunniti, perchè le bombe distribuiscono in modo più o meno imparziale il loro carico di morte. Questa volta almeno Zalmay Khalilzad, l'ineffabile artefice del cosiddetto 'accordo di pace' tra Usa e Taliban, ha avuto il buon gusto di tacere sui social media. E' ormai chiaro a chiunque che non c'è alcun accordo di pace ma soltanto un ritiro più o meno disonorevole da parte delle truppe occidentali. Sulle ragazze, sulle donne di Kabul, si gioca ormai da vent'anni una partita vergognosa. I diritti delle donne sono stati invocati da più parti e ripetutamente quando si cercavano ragioni per rimanere in Afghanistan. Il diritto all'istruzione, al lavoro. Diritti che i Taliban hanno accettato di sostenere, in sede di colloqui, purchè 'in accordo con la Sharia', la legge islamica. Legge che è soggetta a interpretazioni più o meno restrittive e che, quando i signori della morte erano al governo a Kabul, è stata adoperata per tenere le donne confinate a casa. Le vedove non avevano modo di procurarsi da mangiare per sfamare i loro figli, per le ragazze imparare a leggere e scrivere diventava una trasgressione pericolosa. Tutti lo sanno, ma conviene a tutti far finta di dimenticarlo. E non si tratta soltanto dei diritti delle donne, ma dei diritti dei cittadini afghani, tutti. Le truppe americane tornano a casa l'11 settembre, uno sfregio simbolico alla memoria di coloro in nome dei quali questa lunghissima guerra è stata combattuta, alla memoria di coloro che hanno perso la vita perchè gli è stato detto che combattevano per quei morti, per la democrazia, per la pace. In questa cosiddetta 'pace', sono stati i Taliban a dettare le condizioni e Washington è stata costretta a rimangiarsi di fatto tutte le clausole poste all'inizio dei colloqui: la rescissione dei legami con Al Qaida, una trattativa guidata dal governo afghano. Il riconoscimento, da parte dei Taliban, del suddetto governo e del processo democratico faticosamente instaurato nel paese. Risultato: i campi di addestramento congiunti tra Taliban e gruppi jihadi Pakistani e tra Taliban e Al Qaida, prosperano. Il vituperato Isis-K su cui i Taliban buttano la colpa di ogni efferatezza è in realtà, secondo l'intelligence afghana e non solo, soltanto l'altra faccia della stessa medaglia, una medaglia coniata e accortamente gestita dal governo e dall'esercito pakistano. Islamabad ha difatti gestito i colloqui di pace sostenendo il ritiro delle truppe americane non perchè, come pensano in molti, temessero ritorsioni da parte degli Stati Uniti: ma perchè è nell'interesse del Pakistan, e della Cina dietro il Pakistan, “avere a Kabul un governo stabile”. Stabile e, soprattutto, favorevole ai generali pakistani, anti-indiano e anti-occidentale. Per ricominciare a giocare il famoso gioco di Musharraf, una partita truccata su due-tre tavoli in cui si prendono soldi dagli americani per sconfiggere i terroristi manovrati dai generali. E in questo gioco ipocrita, tutti fanno finta di dimenticare che Islamabad in Afghanistan non ha mai, mai sostenuto un governo democraticamente eletto ma sempre e soltanto i gruppi militanti: Taliban, Haqqani, Isis-K, Al Qaida. Tutti fanno finta di non sapere che il 12 settembre prossimo di democrazia a Kabul non rimarrà nemmeno più il pallido fantasma conquistato in questi ultimi anni, che ragazze e donne dovranno tornare a nascondersi come se la loro stessa esistenza fosse un delitto. Fanno finta di non sapere che se ci sarà pace sarà quella dei cimiteri, la 'pax talibana' sotto l'egida cinese. Beijing, che con i Taliban ha dialogato più di una volta, vuole la pace. La pace dello Xinjiang, la pace che permette ai traffici di prosperare, di costruire muri e recinzioni di filo spinato per privare i cittadini dell'accesso all'acqua potabile, al cibo. La pace mantenuta col terrore. La pace dei taliban. Francesca Marino