“Il Pakistan sta conducendo una guerra non dichiarata contro l'Afghanistan”: così il presidente afghano Ashraf Ghani apriva a Kabul il cosiddetto “Kabul Process”, un meeting d'emergenza convocato dal governo afghano per discutere di sicurezza, antiterrorismo e politica. Un meeting che riuniva i rappresentanti di ventitre paesi, l'Unione Europea, le Nazioni Unite e la Nato, convocato all'indomani dell'attacco, che ha lasciato sul terreno centocinquanta morti e diverse centinaia di feriti, all'enclave diplomatica di Kabul. Si è trattato, secondo le cronache, dell'attacco peggiore mai portato a termine negli ultimi anni. Perdipiù, ad aggiungere la beffa al danno, si tratta di un attentato senza obiettivo e senza altro scopo che non fosse quello del puro terrore. Un terrore senza nome e senza rivendicazioni. L'Ambasciata più colpita è stata quella tedesca, ma non è certo che si trattasse del target stabilito o addirittura che ci fosse un target. Ma non è finita qui. Subito dopo l'attentato difatti la popolazione, e i capi dell'opposizione, sono scesi in piazza a protestare contro l'incompetenza del governo e contro le politiche del poco amato Ghani. Durante gli scontri con la polizia sono state uccise quattro persone. Altri quattro civili, e uno era il figlio di un senatore. Ai funerali del ragazzo sono esplose altre tre bombe lasciando sul terreno altre quindici persone e una serie di domande scottanti. L'attacco, nessuno degli attacchi a dire il vero, non è stato rivendicato, nemmeno dalla solita Daesh (o IS, per adoperare la sigla più usata a occidente) che rivendica ormai anche gli scontri tra biciclette ma in questo caso continua a tacere. I Taliban si sono affrettati a emanare un comunicato stampa per dissociarsi in modo netto. Il portavoce del Ministro degli Interni afghano Sediq Siddiqi ha invece dichiarato che secondo dati in possesso dell'intelligence afghana a compiere l'attentato nell'enclave diplomatica sarebbero stati alcuni appartenenti al network Haqqani, su mandante dell'Isi pakistana. Il Pakistan si è ovviamente affrettato a smentire ogni coinvolgimento. Non è la prima volta che il governo afghano accusa Islamabad di finanziare jihadi che operano in Afghanistan, e i due paesi sono da un po' di tempo ai ferri corti: scambi di fucilate e colpi di mortaio sul confine stanno diventando abituali, così come le accuse reciproche di finanziare terroristi che agiscono da una parte o dall'altra della Linea Durand. Il presidente Ghani, aveva tempo fa dichiarato che: “le relazioni con il Pakistan costituiscono per l'Afghanistan una sfida di molto superiore all'esistenza di gruppi come Al Qaida e i Taliban”. Secondo Ghani, e secondo molti analisti, è difatti dal Pakistan che continuano ad arrivare jihadi di vario genere. Gli afghani, e non sono i soli, sostengono che Islamabad si aggrappa ormai ai Taliban come ultima risorsa in suo potere per continuare a mantenere un controllo di qualche tipo su Kabul e contrastare la sempre crescente presenza e influenza indiana sul territorio. A Quetta, in questi giorni, mullah e affini raccolgono attivamente risorse per finanziare la guerra dei fratelli afghani. Che hanno in mano loro i tre quarti del territorio e che, come hanno dichiarato più volte, hanno dalla loro un'arma formidabile: il tempo. Che gioca dalla loro, così come gioca a loro favore lo stato deprimente del governo di Kabul. Intanto mentre Ghani teneva il suo discorso e apriva il Kabul Process, un missile veniva lanciato verso la residenza dell'Ambasciatore indiano a Kabul senza provocare vittime. Poche ore dopo, a Herat, l'ennesimo attentato suicida appena fuori della Jama Masjid provocava sette morti e quindici feriti. “La tragedia di oggi dimostra che il conflitto afghano non sta affatto diminuendo di intensità ma si sta al contrario inasprendo, in un modo che dovrebbe allarmare la comunità internazionale” dichiarava Amnesty International dopo l'attacco di Kabul, ma la comunità internazionale preferisce far finta di nulla. Daesh, Al Qaida, i Taliban, l'Is e tutta la galassia jihadi che popola il paese vengono considerati più o meno incidenti di percorso da tenere buoni in sostanza con operazioni di polizia. Trump ha promesso l'invio di nuove truppe, tre le tre e le cinquemila unità. Intanto, è andato a stringere la mano a coloro che il terrorismo islamico finanziano e indottrinano da anni, mentre l'occidente tutto vende ancora armi a chi poi arma Taliban e jihadi vari. Come diceva il grande Alberto Sordi, finchè c'è guerra c'è speranza. E mentre Washington discute dell'invio delle nuove truppe, senza alcuna strategia che non sia quella ormai consolidata di tamponare le falle e tirare avanti in attesa che succeda il miracolo, l'Afghanistan diventa sempre più una polveriera a cielo aperto pronta a deflagrare con conseguenze disastrose. Il fatto è che i giocatori del Nuovo Grande Gioco sono diventati tanti, troppi, e la maggioranza gioca con carte truccate. Tutti vogliono stabilizzare l'Afghanistan, crocevia geostrategico degli interessi di mezzo mondo, ma vogliono che sia stabilizzato alle loro condizioni e che sia manovrabile dall'esterno. Intanto, la strategia del caos ha funzionato fino a questo momento e continua a funzionare. “L'esplosivo adoperato nell'attentato di Kabul era di tipo militare”, ha dichiarato sempre il solito Ghani chiedendo a gran voce un accordo sulla sicurezza regionale. Ribadendo le accuse verso Islamabad, che più di tutti avrebbe interesse a mantenere l'Afghanistan nel caos per poi pacificarlo sotto l'egida dei Taliban gestiti dai servizi segreti e guidarlo verso la nuova 'pax cinese' che segue le strade maestre del One Belt-One Road.Francesca Marino