“Durante il mio primo mandato riporterò a casa le truppe americane che combattono in Afghanistan. Una eventuale presenza residua di truppe nel paese sarà focalizzata soltanto sull'antiterrorismo”. Chi parla (o meglio: scrive) è Joe Biden, che lo scorso agosto così rispondeva a una delle domande di un questionario inviatogli dal Council of Foreign Relations. Lo stesso Joe Biden che si trova a dover fronteggiare una delle questioni più spinose del momento: se riportare a casa, cioè, come da accordi stipulati dal suo predecessore, le truppe americane entro il prossimo primo maggio. Per riassumere: l'inviato speciale della Casa Bianca Zalmay Khalilzad aveva negoziato, con quelli eufemisticamente, pomposamente e ottimisticamente definiti 'accordi di pace' con i Taliban, il completo ritiro delle truppe americane dall'Afghanistan entro il 1 maggio 20121. L'accordo, stipulato a Doha nel febbraio 2019, è stato firmato praticamente senza condizioni, senza imporre alcun cessate il fuoco ai Taliban e, soprattutto, senza la partecipazione diretta di rappresentanti del governo legittimo insediato a Kabul. L'unica condizione posta ai Taliban per il ritiro delle truppe americane era stata la promessa che il gruppo avrebbe cessato ogni rapporto con Al Qaida e non avrebbe più permesso che l'Afghanistan fosse adoperato come base logistica per attentati contro l'occidente. Una foglia di fico, in pratica, per permettere agli Usa di abbandonare quella che Kipling ha definito 'la tomba degli imperi' senza dover annunciare ai propri cittadini un non proprio onorevole ritiro. Inutile sottolineare che la firma dell'accordo è stata festeggiata dai Taliban come fosse una vera e propria resa. E, di fatto, lo era. A dettare condizioni sono infatti i Taliban: che fanno pressione su Biden perchè la data del ritiro delle truppe venga mantenuta senza alcun distinguo, e che minacciano altrimenti una ripresa in grande stile delle ostilità. Ostilità che, per essere precisi, non sono mai cessate. Anzi. Nell'ultimo anno attacchi e scaramucce sono cresciuti di molto, e hanno riguardato in molti casi obiettivi civili. La strategia segue ormai una prassi consolidata: si attaccano mercati, scuole e ospedali o, meglio ancora, si ammazzano direttamente giornalisti (preferibilmente donne, come le tre uccise il 2 marzo), giudici, professori, attivisti. Nesuno rivendica gli attentati, i Taliban rilasciano un comunicato negando ogni responsabilità per l'accaduto. In qualche caso a rivendicare il fatto è l'Isis, o sono i gli stessi Taliban a scaricare ogni colpa sull'Isis. Khalilzad condanna i nemici del processo di pace, tutti fanno finta di crederci e la farsa prosegue. Anche in questo caso, la strategia è chiara e i Taliban non hanno mai pensato, nemmeno per un momento, di nasconderla: terrorizzare la società civile per puntualizzare un paio di cose. E cioè che i Taliban non hanno alcuna intenzione reale di trattare con il governo afghano (che non riconoscono) o di far parte di un eventuale progetto politico di stampo sia pur vagamente democratico. Ciò che vogliono è un governo di transizione comandato da loro, che metta in atto l'unica forma di governo considerata accettabile: l'Emirato Islamico dell'Afghanistan. Tutto il resto non conta nulla. I Taliban hanno anche di recente ribadito il concetto, in una lettera aperta diretta 'ai cittadini americani' e via social media. Intanto, per mantenersi in esercizio in attesa della decisione di Biden, continuano ad ammazzare civili e ad attaccare truppe governative. Il fatto è che il 'processo di pace' non esiste e non è mai esistito. Che i Taliban, come evidenziato da più parti, non hanno alcuna intenzione di rescindere i loro legami con Al Qaida, che sia i Taliban che l'Isis-K sono gestiti e finanziati dal Pakistan e all'Isis vengono affidati i 'lavori sporchi' che i Taliban non vogliono o non possono fare, e che si inaugurano sempre più 'campi di addestramento alla pace': in cui gli stessi Taliban, Al Qaida e la Rete Haqqani addestrano nuove reclute appartenenti a gruppi terroristici di matrice pakistana come la Jaish-i-Mohammed e la Lashkar-i-Toiba. In Pakistan, al confine, sono tornati i vecchi gruppi Taliban e Islamabad ne sta formando addirittura di nuovi. Che, in sintesi, non esistono soluzioni semplici alla complessa situazione afghana in cui niente è come sembra. Lo stesso Biden se ne era già accorto ai tempi in cui, durante l'amministrazione Obama, aveva cercato di dare il via al ritiro delle truppe americane entro il 2014 con risultati altrettanto disastrosi in termini politici e militari. Il fatto è che il quadro in questi anni si è modificato e non di poco, e che la vera partita si gioca al momento non tra Usa e Taliban ma tra l'Occidente e Beijing, che all'ombra del Pakistan muovono le loro pedine per far rientrare l'Afghanistan, con un governo favorevole e la pax Talibana in atto, dentro la Belt and Road Initiative. Biden farebbe meglio a pensarci, prima di dare il via a operazioni ad alto ritorno di immagine in termini di politica interna, come la fine di una guerra infinita, ma dai costi altissimi per tutti in termini geopolitici.Francesca Marino