“Le uniformi stanno dietro ai terroristi! “L'esercito detiene il vero potere in questo paese, e non ammetterà mai gli abusi e l'oppressione di cui si è reso colpevole. Ma noi non siamo più disposti a subire in silenzio”. E ancora: “Vogliamo giustizia per i crimini commessi nella terra dei pashtun negli ultimi quindici anni. Noi siamo stati per tutti questi anni vittima del conflitto in corso, e lo Stato è colpevole di aver creato e sostenuto un vero e proprio stato di guerra. Vogliamo giustizia per i crimini e le ingiustizie commesse”. A parlare, il 21 aprile a Lahore, davanti a una folla festante di ottomila persone, è Manzoor Ahmad Pashteen, leader del Pashtun Tahafuz Movement. Il movimento, nato da pochi mesi soltanto, è crescituo e cresce a vista d'occhio portando in piazza, a ogni raduno, sempre più persone. Gente di etnia pashtun ma non solo, che da mesi scende in piazza per protestare contro il governo di Islamabad ma, soprattutto, contro il vero governo del paese: l'esercito. Colpevoli entrambi di avere adottato nei confronti dei cittadini di etnia pashtun le stesse strategie adottate nel corso degli anni nei confronti di altri gruppi etnici e culturali che compongono il Pakistan: sfruttamento delle risorse locali a vantaggio della dominante regione del Punjab, colonizzazione culturale, radicalizzazione delle istituzioni religiose e sociali. Questa ricetta ha portato alla nascita del Bangladesh nel 1971, dopo una guerra tra l'attuale Pakistan e l'allora East Pakistan di lingua e cultura prevalentemente bengali, e alla quinta insurrezione di stampo separatista tuttora in corso nella provincia del Balochistan. In Sindh, ha portato alla nascita di partiti politici e di movimenti di stampo etnico-nazionalista. La storia dei pashtun è più complessa e strettamente intrecciata alla vicenda delle occupazioni e dei regimi che si sono succeduti in Afghanistan. Le regioni di frontiera sono state usate di volta in volta come centri di addestramento e vivai per jihadi, come campo di battaglia per azioni dimostrative ai danni dei taliban 'cattivi', come nascondiglio privilegiato per i taliban 'buoni' al soldo di Islamabad, come fabbrica di documenti falsi per spedire spie dell'Isi in Afghanistan. La popolazione ha subito per anni in silenzio o quasi, ha visto le proprie strutture sociali e culturali sgretolarsi, così come si sgretolavano case e mercati e villaggi sotto i colpi di artiglieria dell'esercito pakistano che cercava di convincere l'occidente della sua buona fede mettendo a ferro e fuoco la regione dopo avere, ovviamente, rilocato altrove i propri 'assetti strategici', vale a dire jihadi e Taliban fedeli ai servizi segreti e al governo. Inoltre, negli ultimi anni, la popolazione locale, oltre a subire devastazioni e saccheggi, ha cominciato a subire una sistematica schedatura etnica in tutto il resto del paese, e a essere discriminata di conseguenza. Non solo: nella regione è stata applicata la medesima ricetta applicata da anni in Balochistan. La gente, oppositori politici, semplici cittadini che protestavano, attivisti e intellettuali ha cominciato a sparire o a essere uccisa in pretestuosi scontri a fuoco pur non avendo mai posseduto un'arma. In febbraio Naqeebullah Mehsud, un aspirante modello con vaghe aspirazioni da attivista per i diritti umani, è stato ucciso in un falso scontro a fuoco con la polizia. E' stata la classica goccia: per tre giorni centinaia di persone hanno inscenato un sit in di protesta a Islamabad per chiedere giustizia, ed è nato così il Pashtun Tahafuz Movement che adesso si sta espandendo anche dall'altra parte del confine, in Afghanistan. Il PTM accusa l'esercito di servirsi delle aree tribali per nascondere gli Haqqani e la pletora di jihadi 'buoni' al soldo dei servizi segreti e di far vivere la popolazione locale in un clima di puro terrore. E l'8 aprile, tramite una pagina Facebook chiamata 'Justice for Pashtun' ha portato in piazza a Peshawar decine di migliaia di persone per protestare appunto contro l'esercito, il governo, la dominazione punjabi. Perfino a Lahore, per l'appunto terra a maggioranza punjabi, si sono riunite ben ottomila persone. Arringate per l'appunto da Manzoor Ahmad Pashteen entusiaticamente paragonato da molti a Che Guevara. Un Che locale, che porta invece del basco un cappello nero con ricami rossi. Che come il Che, è giovanissimo e studia medicina ma che, a differenza del mitico Comandante, non crede nella lotta armata. Pashteen è un convinto pacifista, e crede nella protesta democratica. “Noi chiediamo soltanto di sapere dove sono finite le migliaia di persone scomparse senza lasciare traccia. Vogliamo sapere che fine ha fatto la nostra gente e, se tra quelli prelevati dai servizi o dalla polizia ci sono dei criminali, vogliamo che siano processati in un Tribunale. Vogliamo una Commissione che investighi sugli omicidi extra-giudiziali commessi dallo Stato: dai servizi segreti, dall'esercito e da tutti gli altri organismi che hanno torturato e ammazzato civili di etnia pashtun”. Per il momento, lo Stato ha risposto a modo suo, come succede da anni in Balochistan. Ha proibito le manifestazioni, sta arrestando o usando violenza a chiunque sostenga il PTM e nei giorni scorsi nove attivisti del movimento sono scomparsi. Pochi giorni fa alcuni 'sostenitori' dell'esercito, a Swat, sono piombati con armi e bastoni su una folla pacifica e disarmata di venticinquemila persone. Perfino i negozi che vendevano cappelli simili a quello di Pashteen sono stati chiusi, e i venditori arrestati. Tutto questo succede ormai da mesi, nell'assordante silenzio della stampa locale che, a parte pochi stentati resoconti su un paio di giornali di lingua inglese per definizione 'intoccabili', ha avuto ordine di non passare gli articoli dei giornalisti o dei commentatori che si occupavano dell'argomento. Perchè criticare l'esercito, in Pakistan, è un esercizio pericoloso. Non si può fare in base a una ineffabile legge varata lo scorso anno, e chi ci prova a dispetto della legge lo fa a suo rischio e pericolo: di venire malmenato, torturato o ucciso. Specialmente quando, come fa il PTM, si accusa lo Stato di fare il doppio gioco nella cosiddetta lotta al terrorismo. Le stesse accuse, cioè, che l'Occidente fa da anni a Islamabad. Accuse a cui, come da manuale, Islamabad ha prima risposto accusando i pashtun di essere manovrati da 'agitatori stranieri' e in seguito rilasciando una manciata di attivisti. Il PTM non si è fermato, e non si fermerà, dicono i suoi capi, fino a quando giustizia non sarà fatta. Alcuni certo moriranno, sostiene Pashteen, probabilmente anch'io morirò, ma non possono ammazzarci tutti. Anche perchè i Pashtun ammontano a circa il venti per cento della popolazione pakistana. E con le elezioni alle porte c'è il rischio concreto che il movimento venga cavalcato dal politico di turno. O, se le istanze della popolazione cadranno come sempre nel vuoto, di cambiare di segno e di diventare, come è successo in Balochistan, un'altra guerriglia separatista. Francesca Marino